Rome Business School, istituto di formazione post-universitaria, ha pubblicato la ricerca “Il Gender Gap in Italia. Donne, Covid e futuro del lavoro: il ruolo del PNRR e del mondo dell’informazione”, a cura di Valerio Mancini, Professore e Direttore del Centro di Ricerca della Rome Business School, e Simona Sinesi, imprenditrice e docente presso la Rome Business School. La ricerca fa il punto sul gender gap in Italia, analizzando i fattori che lo determinano, in quale misura il Covid ha cancellato parte dei progressi fatti, il PNRR e il futuro del lavoro, e come vengono rappresentate oggi le donne dai media.
Per colmare il divario di genere in tutto il mondo si dovrà attendere oltre 135 anni. La pandemia ha fatto crollare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro a livello globale, e nessuno si è fatto trovare pronto nell’adattarsi adeguatamente alla nuova normalità. Non a caso, l’Italia è oggi tra gli ultimi posti tra i paesi industrializzati per la qualità del suo impiego proprio a causa di un ritardo in ambito di smart working, unito ad un’endemica assenza di stabilità lavorativa.
COVID-19 e il futuro del lavoro
La pandemia ha appesantito ulteriormente il carico di lavoro delle donne, nel posto di lavoro e in famiglia, trovandosi a gestire quest’ultima lavorando da casa. Secondo i dati del sondaggio Ipsos “Il futuro dello Smart-Working: opportunità e rischi per aziende e lavoratori” (2021), le donne con figli riportano una percentuale più alta di stress dovuto ai cambiamenti nelle routine lavorative e alle pressioni sulla cura della famiglia durante la pandemia: il 61% delle donne con figli è stressato dalla pressione in famiglia come il prendersi cura dei figli (contro il 53% uomini con figli); e il 54% delle donne con figli ha dichiarato una produttività ridotta dall’inizio della pandemia (contro il 46% degli uomini con figli). Anche l’organizzazione del lavoro flessibile è da loro considerata insufficiente in assenza di un’adeguata assistenza all’infanzia.
“Le donne oggi più che mai hanno bisogno di contratti flessibili. Questi rappresentano uno scoglio di natura soprattutto culturale, che è necessario oltrepassare: in Italia in troppe aziende vige ancora oggi la regola che va premiato chi lavora più ore e non chi è più produttivo. In questo modo le donne troppo spesso, a causa degli oneri familiari, necessariamente si ritrovano ad essere penalizzate”, afferma Valerio Mancini.
Venendo ai dati del Global Gender Gap Report 2021, le donne registrano tassi di disoccupazione più elevati, in parte anche perché spesso sono impiegate in settori direttamente compromessi dalle misure di distanziamento sociale. Già all’inizio della pandemia la partecipazione delle donne alla forza lavoro mostrava una diminuzione più marcata rispetto a quella degli uomini: il 5% di tutte le donne occupate ha perso il lavoro, rispetto al 3,9% degli uomini (ISTAT 2021). Non solo, il reimpiego delle donne è stato più lento.
Oggi, inoltre, sono in netto calo le assunzioni di donne in ruoli di leadership. La percentuale di donne CEO in Italia, secondo i dati dell’associazione European Women on Boards (EWB), è scesa nel 2021 al 3% (nel 2020 rappresentavano il 4%), il che posiziona il nostro Paese in fondo alla classifica assieme a Germania (3%) e Svizzera (2%) e dietro a Spagna (4%) e Portogallo (6%), contro il 26% della Norvegia, il 18% della Repubblica Ceca e 14% della Polonia. Al di fuori dei consigli di amministrazione la leadership femminile in Italia è ancora lontana dall’essere bilanciata: la percentuale di donne nei livelli esecutivi è solo del 17%, contro il 32% della Norvegia e il 24% della Gran Bretagna.
Il divario di genere e il lavoro in Italia
La pandemia sta svantaggiando soprattutto le donne. Si riduce il loro tasso di occupazione (da 50% a 48,6%) e si amplia il gap occupazionale tra donne e uomini (da 17,9 a 18,9 punti). Le più penalizzate sono le donne che, prima della pandemia, erano riuscite ad accedere all’occupazione solo attraverso contratti precari e in settori caratterizzati da un elevato ricambio.
L’Italia, nonostante la risalita di 13 posizioni nella classifica Global Gender Gap Report 2021 (WEF) rispetto al 2020, si colloca solo al 63° posto. Secondo Valerio Mancini, “l’antidoto per affrontare questa emergenza è quella incentivare percorsi di studio che vadano nella direzione dei settori a più alta occupabilità, rendere effettiva la normativa antidiscriminatoria sui luoghi di lavoro e investire in maniera poderosa sulle infrastrutture sociali”. Infatti, l’occupazione femminile è più bassa laddove è più fragile la rete delle infrastrutture sociali, evidenziando per Valerio Mancini, “non due ma quattro Italie: il Nord e il Sud, le grandi città e le aree interne”.
A nota positiva, le regioni del nord Italia raggiungono livelli totali di occupazione simile ai Paesi più virtuosi d’Europa, un esempio il Trentino Alto-Adige, che ha un tasso di occupazione del 71,3% (ISTAT, 2021). Questa regione registra anche il miglior tasso di occupazione femminile italiano con un 65%, anche se a confronto con i dati europei risulta essere ancora un tasso troppo basso. Nessun luogo in Italia può dirsi soddisfatto del proprio tasso di occupazione femminile, tuttavia, la provincia più virtuosa d’Italia risulta essere quella di Bologna (68,1%), seguita dalla provincia autonoma di Bolzano (67,9%). In contrasto, ci sono zone d’Italia in cui il lavoro femminile è a livelli estremamente bassi: a Caltanissetta il tasso di occupazione femminile è del 23,6%, non molto distante è Crotone, con un 23,9%. Facendo un’analisi di più lungo periodo, tra il 2007 e il 2019, il tasso di occupazione 15-64 anni delle donne nell’UE è stato del 63%, in Italia si è fermato al 59,2%, nel Sud Italia e nelle isole addirittura al 33,2%.
In merito ai percorsi di studi (dati Almalaurea), in ingegneria, manifattura e costruzioni, le donne in Italia restano poco sopra l’8% contro il 24% degli uomini, questo significa che se 1 ogni 4 uomini studia ingegneria, meno di 1 donna su 10 lo fa. In particolare, nell’information & technology le donne rappresentano lo 0,28% contro il 2,05% degli uomini e nelle STEM in generale rappresentano il 16% contro il 34% degli uomini.
Per Simona Sinesi, “la formazione nelle materie STEM, dalla matematica al digitale, è uno snodo fondamentale per abilitare le donne ad essere protagoniste dei lavori del futuro. La più grande sfida che impedisce di colmare il divario economico di genere è infatti la sotto-rappresentanza femminile nelle professioni emergenti”. Nel cloud computing, ad esempio, solo il 12% dei professionisti sono donne. Allo stesso modo, nelle professioni legate all’ingegneria, all’analisi dei dati e intelligenza artificiale, i numeri sono rispettivamente del 15% e del 26%.
Donne e media
Secondo il Global Media Monitoring Project 2020, nei Paesi Ue, dal 2015, i servizi che si sono occupati delle donne sono cresciuti solo del 2%, risultano meglio rappresentate nelle news legate a temi di Società, Giustizia, Crimine e Violenza, Politica e Governo rispetto ad altri ambiti, ma più spesso figurano come soggetti la cui occupazione non è identificata e sono presenti al 22% solo nella categoria più citata dai media, quella dei politici.
Nel nostro Paese, invece, le donne costituiscono il 26% dei “soggetti” delle notizie (-2% rispetto alla media Ue), nonostante il 40% delle redazioni italiane sia composto da giornaliste. Anche in questo caso però, nel nostro Paese, quando si analizzano le posizioni di vertice all’interno delle redazioni viene rivelato l’ennesimo divario di genere: “in Italia abbiamo solo una direttrice di un’agenzia stampa, Alessia Lautone, e di quotidiano nazionale, Agnese Pini, e le voci al femminile risultano essere ancora fortemente marginalizzate nelle news quotidiane”, commenta Alessio Postiglione, Program Director del Professional Master in Corporate Communication Management della Rome Business School.
L’ultimo rapporto del GGMP evidenzia che rispetto al 2015, la rappresentanza femminile nei media in Italia è aumentata del 2% rispetto allo scorso quinquennio. Le donne appaiono più spesso come ‘portavoce’ di partiti o altre realtà, ma la loro presenza in qualità di ‘esperte’ risulta essere diminuita in tutti i canali di informazione, nello specifico: nel 2015 la percentuale di donne “esperte” consultate da giornali e altre redazioni rilevata è stata di circa il 18%, nel 2020 invece il numero è crollato al 14% su testate online e al 12% sulle altre. In Europa invece, la percentuale di donne interpellate come “esperte”, rispetto al 2015, è aumentata del 6%. Un dato che stupisce data l’importanza del ruolo delle donne durante la pandemia, in particolare in ambito sanitario. Sembra quasi che in Italia abbia avuto un effetto opposto rispetto al resto d’Europa: gli articoli, i post e i servizi connessi a professoresse, infermiere, dottoresse sono scesi addirittura all’11% in Italia, una riduzione del 25% in soli cinque anni.
Dare più spazio alle donne sui media non è solo una questione di giustizia sociale, ma genererebbe una lunga serie di benefici nel lungo periodo. Infatti, secondo uno studio dell’European Institute for Gender Equality, maggiore attenzione alla parità di genere potrebbe un incremento del Pil mondiale del 12%, con circa 10 milioni di nuovi posti di lavoro e una crescita economica più sostenibile addirittura stimata al 75%.
Il Gender Pay Gap
In Italia, la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7% contro una media europea del 29,6%, gli uomini guadagnano in media circa 2.705 euro l’anno più delle donne (dati EUROSTAT 2020). Nonostante ciò, le donne sono meno presenti nel mondo della finanza, tra i top manager, in politica e nelle professioni legate alle nuove tecnologie.
Analizzando il rapporto 2022 di AlmaLaurea, frutto di un’indagine che ha interessato 291.000 laureati in Italia, le donne rappresentano il 60% del totale dei laureati in Italia ma, a cinque anni dalla laurea, gli uomini percepiscono, in media, circa il 20% in più. Inoltre, tra i laureati italiani di primo livello il tasso di occupazione è stato del 69,1% per gli uomini e del 62,4% per le donne.
Ancora, secondo l’indagine, a cinque anni dalla laurea sono soprattutto gli uomini a occupare ruoli di alto livello, ossia di tipo imprenditoriale o dirigenziale (2,2% tra le donne e 3,9% tra gli uomini). Gli uomini, inoltre, risultano avvantaggiati anche rispetto ad alcune caratteristiche del lavoro svolto: svolgono in maggior misura un lavoro autonomo (a cinque anni dal titolo 7,5% per le donne e 11,6% per gli uomini tra i laureati di primo livello) o alle dipendenze con un contratto a tempo indeterminato (64,5% per le donne e 67,4% per gli uomini tra i laureati di primo livello; 52,2% e 59,1% tra quelli di secondo livello). Le donne, invece, lavorano in misura relativamente maggiore con contratti non standard (17,0% per le donne e 12,2% per gli uomini tra i laureati di primo livello); ciò è legato anche al fatto che sono occupate, più degli uomini, nel settore pubblico (35,8% e 28,4% tra i laureati di primo livello; 24,4% e 16,5% tra quelli di secondo livello).
Questo gender gap genera inevitabili ricadute negative sull’economia del nostro Paese che vanno oltre la vita lavorativa: il 52,2% dei pensionati sono donne ma ricevono il 44,1% della spesa complessiva. Non solo,il tasso di fecondità totale, nel 2021, è inchiodato a 1,24 figli per donna e l’Italia è oggi il paese Ue con il secondo calo più vistoso di nuovi nati: sono diminuiti del 30% negli ultimi 12 anni. L’Italia perderà nei prossimi 45 anni circa 6,8 milioni di abitanti, una cifra preoccupante che equivarrebbe oggi ad una perdita del 11% circa della popolazione totale.
Il PNRR e i passi da compiere
Il PNRR da all’Italia la straordinaria opportunità di costruire un’economia più resiliente, che si basi sulla parità di genere, investendo in luoghi di lavoro inclusivi, creando sistemi di assistenza più equi, promuovendo l’ascesa delle donne a posizioni di leadership e applicando una lente di genere al futuro del lavoro.
Secondo Valerio Mancini, “in Italia, con il PNRR sono stati stanziati circa 40 miliardi di euro, volti a sostenere l’occupazione femminile ma, nonostante gli ingenti finanziamenti previsti dal Piano, la precarietà occupazionale e la discontinuità con tutta probabilità continueranno a colpire soprattutto le donne. Dal punto di vista delle disuguaglianze di genere, infatti, c’è ancora molta strada da percorrere. Se solamente poco più del 20% delle donne lavora, significa che le politiche di genere attuate finora sono state altamente insufficienti.”
La ricerca conclude che bisogna soprattutto puntare su un maggiore sostegno all’imprenditorialità femminile, a una maggiore rappresentanza femminile in ambito politico, dare spazio alle donne nei vertici dei business, colmare il divario delle assunzioni nelle nuove professioni emergenti e sviluppare una strategia da parte delle aziende mirata all’inclusione e supportata da piani d’azione specifici che mettano al centro le donne, valorizzandone la professionalità e garantendone la parità di trattamento sia nella carriera che nell’ambito salariale.
Un maggior coinvolgimento delle donne nel mondo business, attuato riducendo le barriere che ne ostacolano l’ingresso o il reinserimento nel mercato del lavoro, porta ad una crescita esponenziale del Pil fino al 35%. Con le giuste politiche, le opportunità offerte dalla digitalizzazione, la globalizzazione e l’aumento dell’aspettativa di vita possono essere sfruttate per favorire la riduzione del gender gap, fino alla sua chiusura, incentivando l’empowerment femminile in modo da permettere alle donne di coltivare la loro professione senza dover rinunciare alla famiglia ed arrivare ad un reale job sharing.